Nel nome del cappello si andava in giro a chiedere favori e offrire i propri servigi e per questo si diceva e si dice ancora che si va Col cappello in mano. Si va umilmente, con l’accessorio più nobile e mistico che l’uomo si sia inventato. Chi serra il cappello in mano per chiedere e offrire qualcosa, accetta il destino o spera che la sorte cambi.
Si può fare un errore e si dice Fare una cappellata. Molto probabilmente questa espressione proviene dal dare un colpo con il cappello a qualcosa che ne rovina la forma.
Se di un conoscente si dichiara e nomina la relazione come Amico di cappello vuol dire che non è ancora diventato un amico.
Modi di dire, linguaggi e potere di un oggetto altamente simbolico che ha accompagnato l’uomo nella sua storia.
La plus belle rose de son chapeau è “La rosa più bella del suo cappello”. Lo si diceva in merito all’ attrattiva più grande di una donna. Mentre Mettre son chapeau de travers “Mettersi il cappello di traverso" vuol dire assumere un tono minaccioso.
Ci sono dunque cappelli buoni e belli, cattivi e minacciosi. Ma ci sono anche quelli immaginati come le mistiche e spirituali auree aureole dei santi, riverberi di splendenti doni celesti. E poi ci sono cappelli Vuoti & Pieni, i cilindri magici, quelli dei prestigiatori.
Tutti oggetti ridotti a metafore che non pongono limiti fisici e materiali al protagonista, all’oggetto in sé, il cappello, la protesi che fa uscire fuori per magia dal suo vuoto ogni cosa. In una parentesi magica possibile su questa terra, i cappelli immaginati sono più numerosi di tanti copricapi prodotti artigianalmente e industrialmente perché hanno radici e forma nella libertà dell’immaginazione.
Ogni cappello è stato un segno forte e distintivo a livello sociale e comunicativo.
E anche se ogni travestimento carnascialesco ha il suo cappello (Arlecchino, Brighella, Baldanzone, Pantalone) in dote alla maschera, chiunque indossandone uno si traveste e diventa qualcun altro.Il copricapo si concentra su quella parte del nostro corpo dove i caratteri personali risultano evidenti e col suo ausilio possono mutare, divenire altro, esprimere quella falsa barriera del desiderio. Come la veletta dei copricapi nelle epiche scene cinematografiche della Dietrich o quella dignità proletaria di Charlot rappresentata dalla bombetta distrutta, ma sempre accarezzata, spolverata mille volte e riposta con cura sulle ginocchia di Charlie Chaplin in Luci della città.
Apparteniamo a una generazione che il copricapo lo ha fatto sparire, tanto quanto l’immaginario saluto scappellato. Soltanto per sorriderne lo si fa. Eppure l’atto di salutare sventagliando il cappello urla la nostra presenza al prossimo, certo fra le più frivole, ma anche fra le più solenni al mondo.
Il cappello è un posto vuoto, un oggetto che non c’è, ma è stato il più fotogenico fra gli accessori. Nella storia della fotografia da Henri Cartier Bresson a Robert Capa, Marc Ribaud, Sebastiano Salgado, Ferdinando Scianna, Berengo - Gardin, Elliott Erwitt ha lasciato immagini indelebili. Quando c’era evocava Goethe: “Sotto il cappuccio del pazzo ogni uomo si trasforma in neonato”. E’ la sintesi che ne ha fatto l’alta moda contemporanea con i suoi copricapi scultura (l’ultima Schiaparelli, Dior disegnato da Galliano anni fa, per citarne solo due). La stessa sintesi che ne hanno fanno le popstar, su tutte Lady Gaga, che nei suoi look sembra quasi rispolverarne l’antico mito istrionico del Pazzo alla corte del re che nascondendosi, mascherandosi e agghindandosi ad arte poteva permettersi il lusso di dire la verità più sfacciata di fronte al re, a Dio e agli uomini. Sono questi cappelli immaginati, mistici, sacri e profani che favoriscono come scafandri la sopravvivenza delle nostre idee più ardite.
Anche ne Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello il riferimento è alla follia quando la signora cacciatosi in testa il berretto a sonagli della pazzia può urlare in faccia a tutti la sua verità, tanto nessuno crederà mai a una pazza.
Nel film Un cappello di paglia di Firenze arriva il sorriso,l’oggetto/soggetto cappello diventa pretesto di una serie di gag comiche. Nella commedia brillante di Eugene Labioche e Marc Michel del 1851 (ripresa nel film muto di Rene Clair nel 1927) la narrazione con ironia e argutezza si svolge attorno alla ricerca di un introvabile cappello di paglia di un’elegante signora. In realtà il cappello è stato divorato dal cavallo di Fadinard un giovanotto che dovrebbe sposarsi lo stesso giorno in cui il quadrupede ha divorato l’accessorio di paglia. Per il giovane sostituire il cappello diventa non solo un incubo ma anche una questione di onore, in un susseguirsi di eventi comici strepitosi.
Ne Il cappello a tre punte di Pedro De Alarcon y Ariza del 1874 la sfida che lancia il capello è sul piano sociale e di potere fra un mugnaio e il podestà. Col cappello del podestà, il mugnaio viene accolto e riverito come se lo fosse veramente il podestà. Invece quest'ultimo col cappello del mugnaio viene scacciato dal suo stesso palazzo.
Ma il ruolo più magico ed eversivo del cappello lo troviamo ne Il golem di Gustav Meyrink (1977). In questo romanzo Athanasius indossa per errore il cappello di un altro e si trova ad assumere la vita, la personalità e i tormenti del reale proprietario. Potere di un cappello? Sì, potere del cappello, ma proprio quello e non un altro.
Il cappello ha rappresentato il potere politico, religioso, sociale, militare. E’ stato utilizzato nelle caste militari, nelle associazioni professionali, sportive. Chi non ha presente il copricapo di papà Cunningham in Happy Days, il capofamiglia iscritto alla "Loggia del Leopardo", una sorta di piccola ed esclusiva associazione dove si riuniscono i padri di famiglia per organizzare le più disparate iniziative e dove è obbligatorio portare un bizzarro cappellino leopardato. La massima aspirazione del signor Cunningham è diventare "Gran Puba" della loggia. Ogni copricapo ha sempre segnato gli itinerari di ordini e caste fra le piu ardite.
La forte connotazione sociale del cappello nasce nell’Ottocento ed è borghese, si disgrega nelle trasgressioni del Sessantotto e rinasce con la moda negli anni Ottanta. Basco, coppola, bombetta, Borsalino, gibus, paglietta, panama, sombrero, Stetson, feltro. Lavorato artigianalmente o industriale, il cappello è spesso legato alla sua materialità, alla materia prima che si utilizza per realizzarlo, ma fondamentalmente il cappello è un “cappello inespresso”. E’ tutto e niente. E’ un vuoto formato da un oggetto pieno, la sua forma. Il cappello all’interno è vuoto , la sua forma di legno è un oggetto che invece possiede una sua identità espressiva in bilico fra forme che bene o male devono rispettare la parte più nobile del nostro corpo e materiali che devono trasferire immediatamente significati sociali e rituali.
Il cappello di carta del muratore costituisce l’esempio più coerente e risolto di un materiale e di una forma che pur vivendo lo spazio di una giornata di lavoro si ritrovano sempre uguali quasi appartenessero a una sorta di codice universale di comportamento. La testa per il cappello è solo un pretesto.
A Ghiffa è nato nell’Ottocento un grande e importante cappellificio italiano. Ghiffa è a metà strada tra lago e montagna, alle pendici del Monte Carciago. E’ un comune della provincia del Verbano-Cusio-Ossola di circa 2300 abitanti sulla sponda piemontese del Lago Maggiore. Numerose sono le ville d’epoca in zona e fra le tante spicca Villa Ada fatta costruire dal principe russo Troubetzkoy per sua moglie, la cantante lirica americana Ada Winans. Il principe scelse la frazione Susello di Ghiffa dove impiantò sulle sponde del Lago Maggiore fra l’altro un gran numero di palme, circa 400 esemplari.
Fra la Chiesa di San Maurizio risalente al 1125 e quella di Santa Maria Assunta che all’interno conserva alcuni affreschi di grande pregio, spicca anche la costruzione industriale ottocentesca del cappellificio Panizza oggi Museo dell’Arte del Cappello. A partire dal 1881 il Cappellificio Panizza realizza copricapo di ogni tipo. Al museo sono in mostra antichi macchinari e strumenti utilizzati e prodotti in questa storica azienda. Archivi fotografici, rarissimi video, collezioni e stampe, messi a disposizione per far conoscere come dal pelo di coniglio si può arrivare a realizzare copricapi destinati a fare la storia. Al museo si racconta la storia di un mestiere diventato arte e di un territorio diventato eccellenza italiana, quella di un’azienda che dal 1881 al 1981 portò l’arte del cappello nel mondo.
“Saranno confezionati in feltro, velluto, paglia, sughero, metalli leggeri, vetro, celluloide, agglomerati, pelle, spugna, fibra, tubi neon, ecc. separati e combinati.
La policromia di questi cappelli darà alle piazze solari il sapore di immense fruttiere e il lusso di immense gioiellerie le strade notturne saranno profumate e melodiose luminarie correnti tali da uccidere definitivamente la vetusta nostalgia del chiaro di luna.”
Il Manifesto Futurista del Cappello Italiano
Francesco Tommaso Marinetti, Francesco Monarchi, Enrico Prampolini, Mino Somenzi.
Museo dell'Arte del Cappello
Corso Belvedere, 279
Ghiffa, Verbania
T 0323 670731